Lo scenario post Covid nei Paesi anglosassoni è segnato dal fenomeno delle “great resignation” – grandi dimissioni. Anche se in Italia il fenomeno è più contenuto, le dimissioni volontarie sono in aumento e il trend viene confermato dallo stesso Ministero del Lavoro: i numeri relativi all’occupazione nel secondo trimestre 2021 evidenziano un aumento considerevole di lavoratori che si sono dimessi (+37% rispetto al trimestre precedente e addirittura +85% se paragonati allo stesso periodo nel 2020). Un fenomeno complesso, che ha molteplici fattori all’origine: la minore disponibilità dei dipendenti alle condizioni imposte da alcune aziende, la ripresa che sta creando nuove opportunità di lavoro, i salari fermi, specie in alcuni settori (compresa la P.A.), che spingono a cercare altrove condizioni migliorative. Ma il denaro non spiega tutto e di certo le persone non cambiano radicalmente la propria vita lavorativa solo per avere un ritorno economico maggiore.
Le ricerche fatte fino ad oggi sembrano tutte convergere verso un unico punto: la pandemia ha cambiato tutto, persino il punto di vista e le aspettative dei lavoratori. Con l’aumento del carico di lavoro e la difficoltà di trovare il perfetto equilibrio tra vita privata e professionale durante i vari lockdown, infatti, moltissimi dipendenti e professionisti hanno iniziato a ritenere insostenibile il proprio stile di vita. Burnout e voglia di cambiamento hanno spinto molti ad un taglio netto con il passato, perché questa lunga pandemia ha creato le condizioni per riflettere seriamente su se stessi e i propri valori, di conseguenza sugli obiettivi di vita, sia lavorativa che personale.
Stessa origine ha il fenomeno del South Working, ovvero dipendenti di aziende del Nord che restano o si traferiscono al Sud, e radici simili può avere anche il declino del “mito del posto fisso”, visto che la partecipazione dei giovani ai concorsi pubblici si è ridotta sensibilmente e quando li vincono spesso rifiutano il posto, allettati da offerte nel privato più vicine, più remunerative o più interessanti.
Ciò che preoccupa di più di questo nuovo scenario, che investe soprattutto le aziende del Nord, è la tipologia di lavoratori che si dimettono: sono in particolare i dipendenti tra i 25 e i 45 anni d’età, spesso figure formate, con specifiche competenze e un importante know-how; parliamo cioè dei giovani talenti e delle risorse umane altamente competenti. L’uscita di questo tipo di dipendente rischia di generare fenomeni emulativi, determina una grossa perdita di capitale umano, mette a rischio la tenuta dei team e può avvantaggiare i concorrenti.
LEVE ECONOMICHE E NUOVE SOLUZIONI
Come affrontare il problema e fidelizzare i dipendenti? La risposta anni 90 era basata su leve economiche: benefit e strumenti di welfare più tradizionali (ad esempio palestre, asili, auto, assicurazioni). Una soluzione immediata e utile, ma oggi non basta più e spesso non è efficace. Bisogna affiancare e spingere in maniera crescente su risposte profondamente legate al benessere lavorativo generale e al cosiddetto wellbeing: flessibilità oraria e organizzativa, che non è solo smart working ma anche tutti gli interventi di de-standardizzazione oraria e personalizzazione dell’organizzazione; azioni di miglioramento del clima e della cultura interni; percorsi di formazione e team working; lavoro basato sui risultati e non sul controllo della presenza in sede; settimana corta; percorsi interni di crescita chiari e flessibili. Sono solo alcune delle soluzioni che possono trattenere i talenti in azienda e attrarne di nuovi e questo non riguarda solo le grandi aziende del Nord, ma è un tema cruciale per tutti gli imprenditori, anche quelli più tradizionali, se non vogliono restare indietro e perdere competitività.
«In generale quello a cui stiamo assistendo – spiega Carlo Majer, co-managing partner di Littler – è la conseguenza di questa rinnovata attenzione all’equilibrio vita/lavoro. Fino alla pandemia l’interesse dei lavoratori era più per altri aspetti, ad esempio l’asilo dentro l’azienda o altri benefit. Ora invece l’attenzione è sulla flessibilità nella prestazione lavorativa».
LA CONSULENZA SARTORIALE E CREATIVA
Lentamente i piani di incentivazione stanno cambiando forma e le richieste non trovano sempre riscontro adeguato nella normativa. Le imprese hanno bisogno, così, di una consulenza molto più innovativa, perché le esigenze toccano vari ambiti: compliance, privacy, organizzazione del lavoro e forme ibride, policy aziendali, nuovi strumenti di remunerazione e modalità di lavoro alternative, regolamenti personalizzati, ascolto e benessere, conciliazione vita-lavoro, comunicazione e lavoro in gruppo…
I bisogni aziendali diventano più complessi ed è necessario offrire consulenza multidisciplinare e creativa, basata su una conoscenza solida delle norme e delle prassi, sull’esperienza e sull’aggiornamento continuo, per sperimentare, nei limiti del consentito, soluzioni di processo che non possono essere standard ma al contrario sartoriali, ovvero su misura per quella azienda e quel gruppo di dipendenti. Questo tipo di consulenza richiede più competenze e una grande onestà e attenzione al cliente, a cui vanno evidenziate anche le criticità, perché possa farsi accompagnare nel processo del cambiamento, diventando attivo e protagonista.
«Non esiste una soluzione perfetta – spiega Massimiliano Arlati, founding partner e managing director di Arlati Ghislandi, specializzato nella gestione delle risorse umane – noi consigliamo un welfare aziendale mirato costruito sull’immagine del cliente; una serie di azioni positive fatte nei confronti dei dipendenti come la formazione professionale e la formazione professionistica ossia sul modo di lavorare e sulla consapevolezza del proprio lavoro».
Noi di T-innova partiamo in ogni caso dall’ascolto, dall’osservazione e dall’analisi, restituendo al cliente una fotografia della situazione di partenza e un’ipotesi di intervento, da percorrere solo se ci sono fiducia e impegno reciproci.